mercoledì 16 gennaio 2013

XXXII - Pavia, o lo yin e lo yang

Yin ha bisogno di Yang. Male ha bisogno di bene, per essere notato, e viceversa. 

C'era un tempo nel quale andando a Pavia mi sentivo come fosse all'incirca il centro del mondo.

Oggi non è così, Pavia pian pianino è uscita sempre più dalla mia vita. Un pò perchè comunque ho altre mete, un pò perchè Pavia ti caccia a calci nel sedere e nessuno è in grado di fermarsi e lavorarci davvero, e questo spiega come nonostante tanti universitari la affollino, gli abitanti continuano a diminuire di numero: la gente, tranne piacevoli eccezioni, abita in provincia o a Milano.

Pavia, per me, oggi è città di visite, di cortesie, con un freddo che non ha uguali nel mondo.

E' sempre una gran bella città, però dopo 12 anni che ci giri pecca di mancanza di originalità.

Sì, c'è un negozio curioso dove puoi comprare il caffè.

Sì, hanno aperto qualche bar diverso. Ma è un bar.

Però la sostanza sempre quella è. Pavia è Pavia, immutabile nei secoli, e forse è giusto così: ogni studente universitario deve avere una Pavia brillante e caldissima d'estate nella quale studiare ed innamorarsi, usarla e dopo metterla là, nell'album dei ricordi più belli, in modo tale che passando per i corridoi dell'università, nel gelo umido della notte che la fa sembrare una stazione polacca (come dice Severgnini) uno rimembri quei tempi passati mentre pensa "merda, domani devo andare a lavorare".

Ed è anche giusto così.

Se no sai che palle. 

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